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Cate

Razor's edge (Il filo del rasoio)


William Somerset Maugham non ha bisogno di presentazioni, come non ne ha il suo bellissimo romanzo "Razor's edge", Il filo del rasoio, arcinoto anche grazie al film di Edmund Goulding del 1946, con protagonista Tyrone Power. La storia di Larry Darrell, il vero "eroe" di una vicenda per la verità nutrita di molti personaggi più appariscenti di lui, sarebbe sufficientemente conturbante già di per se stessa (grazie anche a un lieto fine spacciato per tale con tagliente ironia, che sa in effetti d'amaro). In queste giornate calde e dolorose (penso specificamente agli attentati in Spagna di questa notte, ma a molte altre faccende orrende potrei fare riferimento), a turbare ci si mette necessariamente anche una doverosa domanda sull'etica di questo personaggio, per aiutarsi a orientare la propria in mezzo allo scoramento.

Larry Darrell, giovanissimo reduce del primo conflitto mondiale, in guerra ha visto la morte negli occhi; più precisamente, l'ha guardata negli occhi dell'aviatore, commilitone e amico, morto in seguito ai colpi ricevuti in una battaglia aerea, nella quale aveva esposto se stesso per proteggere Larry e il suo aeroplano da un'aggressione nemica.

L'ambiente di Larry - a guerra finita e tutta da dimenticare al più presto - lo vuole ricondurre al suo rientro nei panni del benestante giovanotto che era prima e da cui molto ci si aspetta ora per le gloriose sorti e progressive degli U.S.A. e anche per quelle della sua fidanzata, Isabel. Ma Larry è attanagliato dal grande quesito che fu dei mistici, dei filosofi e di tutti quegli uomini comuni che hanno incrociato il loro sguardo con quello di una creatura morente, non importa come. Che senso ha ciò che noi chiamiamo il Male nella Natura? E, per chi ci crede, che senso ha il Male nel quadro dell'esistenza di Dio?

Credo che sia impossibile non essere portati a porsi la domanda più che quotidianamente; e mi pare difficile non sentire una spina far sanguinare qualcosa in fondo al cuore.

Credo anche che siamo in generale portati a rimuoverla rapidamente, esattamente così come la rimuove il milieu privilegiato della ricca borghesia statunitense del primo dopoguerra, in cui Larry si muove all'inizio del romanzo e che, senza polemiche, ma con determinazione fortissima, abbandona, avendo le condizioni per farlo, con lo scopo di vivere alla sua maniera e ricercare, tra esperienze di vita e sforzi enormi di conoscenza, la pace spirituale.

A prescindere da quello che a me personalmente più fa male, in questa narrazione, e cioè l'ostracismo ipocrita e paternalistico da cui il protagonista è assediato all'inizio del romanzo e in un certo senso fino al suo termine, la domanda che mi trovo tra le mani riguarda proprio le piccole e grandi scelte, i gesti concreti che si possono fare quando si sa e si sente di essere nudi di fronte non solo alla intrinseca caducità di tutto (in fondo, la vita si fermerebbe, se piano piano alcune creature - inclusi noi stessi - non lasciassero naturalmente lo spazio della vita a disposizione di altre), ma anche e soprattutto di fronte alla violenza e alla sua intrinseca stupidità, quando queste si scagliano contro la vita, che già di suo è fragile abbastanza, umiliandola, calpestandola, insultandola e distruggendola nel peggior modo possibile.

Non faccio particolari distinzioni tra la violenza esercitata sugli animali, i vegetali, gli esseri umani, i sassi e i paesaggi ( e chi più ne ha, più ne metta)... La violenza alla terra agricola perpetrata dalle macchine nel "Furore" di Steinbeck è immagine che parla da sè, esattamente come - per attenerci solo alla cronaca recente - l'orsa KJ2 abbattuta assurdamente proprio dalle persone e istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla; ne parlano le vittime di ogni terrorismo così come - secondo me, e lo dico con il massimo rispetto - i mattatoi, i vivai e tutte le creature che nascono già morte perchè ne sia creato profitto (se mi soffermo sul tema, mi viene in mente Moni Ovadia quando - testimoniando che secondo lui dall'Olocausto non siamo mai usciti - afferma pensoso che Treblinka per gli animali non è mai finita).

Il "Male", insomma, non è inteso in questa riflessione come un problema specificamente umano, anche se l'etica, invece, è questione specifica dell'umano: perchè lui sì e io no? Perchè io vivo e l'Altro non più? Perchè sono qui, adesso (e magari tra un minuto non ci sono più)?

Quali scelte, dunque, dicevo? Quali, dico, se mancano la capacità, la possibilità, il coraggio di cambiare la propria vita radicalmente? E poi come? Meglio fare l'eremita, il giustiziere della notte o il guerrigliero ambientale, o anche, con impostazione diversa, il dittatore, il violentatore, il truffatore? Sarebbe da vedere, ma io, sinceramente, mi fermo prima. Parlo di scelte minimali di individui che, quotidianamente, vorrebbero continuare a fare la spesa senza sentirsi mordere di rabbia per le piante secche e stecchite buttate vicino alla carta igienica (delle bistecche e dei dadi da brodo nemmeno parlo) e che vorrebbero spegnere la radio e fare le proprie cose senza disperarsi per tutto il giorno fermando la propria esistenza, come le cronache invece imporrebbero, dopo avere ascoltato le notizie sugli ultimi morti ammazzati in giro per il mondo, o magari anche poche strade più in là.

Il romanzo di Maugham si chiama così, Razor's edge, perchè (come recita la citazione che lo apre e che è estrapolata dalla Katha Hupanishad) così come "è difficile camminare sul filo del rasoio; così, dice il saggio, è aspro il cammino verso la salvezza".

E la "salvezza", per come la vedo io, sarebbe già riuscire a non avere il voltastomaco davanti allo specchio nel prendere atto della mia rassegnazione, implicita nei miei quotidiani oblii, e della meschinità ad essa sottesa (avete mai fatto segreti pensieri come: "speriamo non capiti a me, nè a chi amo", "speriamo che tutto si disfi quando non potrò più vederlo"? Io sì, più spesso di quanto non mi piaccia ricordare).

Porsi il problema ("quali devono essere i miei gesti quotidiani, qui in mezzo?") è in realtà un duro equilibrismo sul filo del rasoio: implica una consapevolezza così tanto dolorosa da riuscire stomachevole, appunto; e con la nausea si rischia di perdere l'equilibrio.

Le risposte sono, credo, molteplici, ma sono pure molto personali. Anzi, secondo me sono solo personali. C'è chi dice che, nel farsi troppe domande, vale l'adagio: "chi ha tempo si dia tempo". Io credo che per queste domande il tempo vada cercato e trovato. Ma è una mia opinione. E quali possano essere le risposte e gli itinerari per cercarle è una questione, appunto, personale.

Ciò che però mi preme focalizzare è che i nostri "giusti gesti" possono arrivarci incontro fatalmente, come inatteso frutto di una ricerca finalizzata ad altro. E questo mi dà qualche speranza.

Dieci anni fa ho scritto questo racconto. Recentemente l'ho ritrovato sul mio personale filo del rasoio e mi ha dato da fare. Dice perchè più o meno allora (avevo ormai più di trent'anni) ho volto le spalle a una vita all'incirca impostata per rimettermi a trafficare con la musica - frequentata maldestramente nell'infanzia e nella prima giovinezza. L'ho fatto per il tramite di una fisarmonica e il racconto si chiama, per questo, "Per fisarmonica sola".

Quando l'ho scritto non ero affatto consapevole di cosa avrebbe significato oggi ricordarmene.

Se vi capitasse di scaricarlo e di leggerlo, tenete presente che non molto ho risolto da allora; anzi, passando il tempo, il dolore si è disvelato cronico, profondo, ampio, radicato, probabilmente intrinseco alla mia natura. Tuttavia, mi abita ancora la speranza che quello che il racconto testimonia sia stato il mio "giusto gesto". Quello che oggi continuo a fare: cercare nella musica, quanto più posso (a volte anche piuttosto poco), la forza con cui la mia etica possa continuare a stare in equilibrio sul filo del rasoio, procedendo a piccoli passi, senza tornare indietro, senza rendermi peggiore. La musica è il materiale elettivo: mi aiuta a stare in bilico e - mi sembra - un poco per volta anche ad avanzare.

Far musica non mi viene naturale, non mi esce spensierato, non mi porta quotidiana tranquillità e nemmeno un gran sollievo, se non quando mi galvanizzo (sempre molto brevemente) per il minimo sindacale rappresentato da qualche sudata soddisfazione ancora concessa alla mia tardività e che mi fa sentire legittimata, perchè è possibile condividerla con gli altri molto più delle ben più autentiche difficoltà che incontro nella mia cameretta.

Sono vecchiotta; giocoforza sento che il tempo è troppo poco per fare qualcosa che abbia significato in senso ampio, collettivo. Figuriamoci poi contro la violenza, la stupidità.

Eppure, non voglio farne a meno. Sono in condizione pratica di continuare, almeno per ora. Posso farlo e devo farlo.

Perchè non si può sapere dove questo sentiero porterà.

Forse da nessuna parte, forse invece in luoghi e tempi sconosciuti che - altrimenti che così - resterebbero inesplorati.

Non posso saperlo ora e devo continuare lo stesso.

Questo lo dico solo a me stessa, perchè in questo momento sinceramente titubo. Vorrei teletrasportarmi molto lontano da questa nostra Terra degli Uomini che Ammazzano gli Orsi e gli altri Uomini e le Piante e i Luoghi; dal mio pianoforte e dalla mia fisarmonica, dalla Musica stessa, e, peggio, anche lontano da me stessa, dal mio sentirmi inutile e incapace e quindi vigliacca, perchè non so come mettere la mia mano in gioco in un modo risolutivo, sensato, perchè vada al bando la violenza, al bando la stupidità.

Lo dico a me stessa e a me stessa serve scrivere questo pistolotto.

Voi però - se mi intercettate - leggete Il Filo del rasoio di William Somerset Maugham. E state attenti non solo a Larry, ma a Maugham stesso, testimone messo in scena in prima persona tra le vicende degli altri personaggi.

Chirurgico nell'analisi (tra l'altro, non a caso, Maugham era un medico) e socialmente protetto dal suo successo letterario, Maugham è - oltre che narratore - anche un attore, nel romanzo; e come tale osserva, sopporta e testimonia tutta la verità. Che è questa: Larry arriverà sì a trovare il suo modo di modellare un sentiero per lui sensato nella giungla della vita, a prezzo però di una necessaria ignoranza di alcuni ultimi fatti di fondo, davvero stomachevoli, che lo scrittore risparmia a lui, ma non a noi.

L'amaro lieto fine in cui tutti hanno in fondo ottenuto ciò che volevano è evidente frutto dell'arbitrio feroce dello scrittore, che non risparmia in proposito una ironica stoccata finale: il lieto fine farà pure alzare le sopraciglia agli intellettuali, ma "per noi, pubblico comune" andrà benissimo. Includendo anche se stesso tra coloro che si accontenteranno di una bugia, Maugham confessa che le contraddizioni non sono affatto risolte: più di prima la vita continua la sua marcia senza risparmiare a qualcuno il male assoluto, lasciando qualcun'altro carico di fardelli meno pesanti; e a un certo punto noi che ci sforziamo di guardarla con lucidità dobbiamo ammettere che ci dobbiamo fermare, accontentarci, raccontarci una bugia per non farci inghiottire dall'impotenza. A meno che non preferiamo un feroce cinismo, la cui eleganza soltanto ci concede di intuire qualcosa di consolatorio, e cioè: la nostra possibilità di avere pietas, com-passione.

La lucidità di Maugham rende questo romanzo, per me, ora, una sorta di breviario di consapevolezza, di manuale di metodo. E, sì, mi fa sentire molto meno sola sul filo del rasoio.

Leggetelo.

E' bellissimo e parlerà al vostro cuore.

Vi aiuterà a togliere via senza troppa fretta la spina che lo fa sanguinare. E quando il cuore sanguinerà forte, finalmente libero di farlo, avrete in voi, senza ottusità, una percezione forse oscura, ma certo più chiara di prima, di cosa significhi essere vivi. E una vaga intuizione, un vago presentimento, di cosa significhi soffrire e morire. Magari per la stupidità altrui.

Senza questa sensazione, io penso, non si può veramente dare valore alla vita, alla propria e a quella dell'Altro. Solo chi non vuole o non può sentire questo sulla sua pelle può diventare capace di alzare la mano sulla vita altrui per farle del male.

E mi illudo ancora, come tanti anni fa, quando imbracciavo per le prime volte la mia fisarmonica, che questa pietas, autentica e profonda, sia nutrimento per il rispetto, unico possibile, piccolo ma solido, granello di resistenza alla fiumana insensata della violenza, della stupidità.


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